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Le stagioni della pratica ovvero: ogni cosa ha il suo tempo?

Non so se leggete molti blog di yoga, oltre al mio 🙂 ma ultimamente va di moda l’approccio confessional-autocelebrativo riguardo all’aver raggiunto una maggiore maturità nella pratica, soprattutto in praticanti e insegnanti di metodi potenzialmente più ‘forti’ come può essere l’ashtanga vinyasa di Patthabi Jois.

Chi prima postava foto di kapotāsana, ora mostra orgogliosamente un mezzo cammello, chi saltava avanti e indietro come un grillo ora muove lentamente una gamba e poi l’altra per spostarsi da ardha uttanāsana a chaturanga dandāsana (se la fa) nel saluto al sole.

Che sta succedendo? I nostri eroi stanno diventando vecchi (si fa per dire) e fragili, anno dopo anno di pratiche intense hanno conferito loro pericolose ipermobilità, hanno consumato dischi intervertebrali, la ricerca di una pratica fluida ha allentato alcune fasce muscolari a tal punto da non avere più sufficiente forza.

Dopo migliaia di foto su instagram si invoca la saggezza antica secondo la quale la pratica di āsana ha solo un’utilità marginale, secondo la quale il respiro deve guidarci verso la comprensione ed il rispetto delle nostre possibilità, secondo la quale basta una pratica posturale di una decina di minuti, magari solo la sub-routine di tadāsana, per portarci in uno stato diverso e più profondo. Insomma, l’età della ragione arriva per tutti o quasi, prima o poi. Potremmo uscire con un ‘noi lo sapevamo già’, anzi è il nostro pane quotidiano, ma non lo facciamo. Ascoltiamo e pensiamo.

Quello che il quasi-rishi Krishnamacharya predicava, è arrivato tardi alle orecchie dei discepoli dei suoi discepoli.

Esiste una stagione per ogni cosa, diceva, mentre insegnava i salti ai ragazzini di Mysore. Esiste una stagione per ogni cosa, diceva, mentre insegnava i canti vedici alle donne in gravidanza. Esiste una stagione per ogni cosa, diceva, mentre invitava il signore cicciottello a perdere la pancetta prima di avventurarsi in sirśasana.

Krishnamacharya e i suoi allievi diretti, soprattutto quelli che, avendo studiato con lui molti anni, abbastanza da passare attraverso diverse fasi della vita sotto il suo insegnamento, hanno potuto capire meglio quello che il maestro intendeva.

E parlano di tre fasi principali nella nostra vita e nella nostra pratica:

Una fase giovanile, in cui il corpo è in condizioni ottimali e si può cercare di lavorare verso la perfezione. Una fase intermedia, in cui cerchiamo di mantenere quello che abbiamo conquistato, salute, forza, flessibilità, capacità di apprendere. Una fase conclusiva in cui ci avviciniamo intelligentemente alla fine dei nostri giorni, abbiamo raccolto quello che c’era da raccogliere e cominciamo a ritirarci in noi stessi, verso un mondo ancora largamente inesplorato e comunque vastissimo.

E in effetti Krishnamacharya aveva ragione. Ma come mai nessuno o pochi gli danno ascolto fino a quando sono costretti a farlo dagli eventi della vita?

Ci irritiamo quando sentiamo le divisioni di età indicate: 15-25 per la fase śikśana, 25-55 per la fase rakśana, 55-75 per la fase adhyātmika. Come! Sono già alla fine della fase rakśana!? Non è possibile, come si permette, mi sento giovane, l’età vera non è quella anagrafica! Diventiamo vecchi quando pensiamo di esserlo!  Quando poi vediamo arzille vecchiette di 104 anni svolazzare allegre sulle parallele non facciamo altro che rafforzare la convinzione che queste regole si applicheranno a *qualcun altro*, e che l’Europa degli anni 2000 non è l’India degli anni ’30 del secolo scorso.

Ed è ovvio che Mr. K non intendeva un’età tassativamente anagrafica, diverse condizioni possono spingerci ad adottare modelli diversi nel corso della nostra vita. Però… tenere a mente che indicativamente ci sono cose da fare in alcuni periodi ed altre in altri può aiutarci in tante occasioni. Soprattutto perché spesso non siamo completamente lucidi quando facciamo scelte personali, ma ci facciamo trascinare da desideri ed avversioni, come abbiamo già visto in altre occasioni.

Poi un giorno, magari spingendo il tagliaerbe che ha finito la benzina, come è successo a me l’anno scorso, CRAC. Cerchi di lavorare sul tappetino per ‘aggiustarti’, sbagli i calcoli e RI-CRAC! rimani semi-paralizzata per un mesetto abbondante.

E quando sei costretta a rivedere completamente la tua pratica, ti accorgi che in effetti i glutei avresti potuto curarli un po’ di più, invece hai privilegiato sukham perché avevi pensato che nella tua natura ci fosse già troppo sthiram. Hai cercato di addolcirti troppo, e la natura ti ha gridato in faccia quanto l’equilibrio sia invece importante, quanto non debba essere solo sthiramsukhamāsanam ma anche sthiramsukhamjīvanam (equilibrio tra forza e morbidezza nella vita).

E infatti penso che il punto sia proprio qui, trovare un equilibrio.

Un equilibrio tra la spinta alla vita, che ci fa negare che gli anni passino per tutti e quindi anche per noi, e il lasciarsi troppo andare pensando che i giorni migliori siano passati e ormai non si possa tentare più nulla di nuovo, nessuna avventura.

Un equilibrio tra l’entusiasmo che una pratica dinamica e corroborante genera, e che potremmo pertanto essere tentati a ripetere in maniera eccessiva, e la saggezza di una pratica più ferma e meditativa, ricca di spunti per guardare all’interno.

 

http://mayalassiter.com/2016/09/ashtanga-yoga-after-45-lessons-learned-after-seven-years-of-near-daily-home-practice-part-1/comment-page-1/#comment-301682

e l’interessante, se pur logorroico, lavoro di Matthew Remski on WAWADIA (what are we actually doing in āsana?)

http://matthewremski.com/wordpress/multimedia/wawadia/

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