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Āsana e Avidyā – Le āsana come ombre nella grotta

Il Mito della Caverna

Nel Mito della Caverna (La Repubblica, Libro VII) Platone descrive una situazione in cui gli uomini vivono legati in una caverna, e possono solo vedere sè stessi ed i propri compagni che si muovono attraverso le ombre proiettate su un muro da un fuoco che arde alle loro spalle. Essendo nati e vissuti in tal maniera, non conoscono altra realtà.

Ora accade che uno di loro si liberi e riesca ad uscire dalla caverna. Temporaneamente accecato dal chiarore del sole, rimpiange la situazione precedente. Mano a mano gli occhi si abituano e la realtà si rivela per quella che è: il mondo reale è diverso, il sole risplende e mette in luce gli oggetti direttamente, la conoscenza non è mediata dalle ombre.

Il prigioniero ritorna poi nella caverna e l’improvvisa oscurità lo acceca nuovamente in maniera temporanea. Quando gli occhi si adattano all’oscurità vede chiaramente la propria condizione precedente e cerca di convincere i compagni, ma nessuno lo crede ed anzi la loro reazione è negativa.

Platone assimila la vita nella caverna alla condizione umana in cui l’idea del bene è accessibile a tutti ma è nascosta e non guida le nostre azioni fino a che non la vediamo. Allora, non possiamo più fare finta di nulla e tornare indietro alla nostra condizione precedente.

Questa metafora ispira la mia idea che la pratica posturale possa in alcuni casi – senz’altro nella mia personale esperienza che comincia dalla sua frequente interpretazione contemporanea – essere l’ombra dello Yoga, una forma che nasconde una realtà più vera e profonda.

Nel raccontare la mia esperienza non voglio in alcun modo criticare i diversi approcci allo yoga, che sotto la guida di un buon insegnante sono accomunati dallo stesso obiettivo, quello di scoprire chi noi veramente siamo e attraverso questa scoperta placare le nostre agitazioni mentali.

 

I Kleśa

Gli Yoga Sutra, un testo compilato probabilmente a cavallo tra il 200 a.C. e il 200 d.C. da uno (o più) personaggi conosciuti come Patanjali, comprende 195 o 196 aforismi che costituiscono un ‘manuale d’uso’ della vita.

In versi tersi e ad una prima lettura spesso enigmatici Patanjali ci spiega la nascita della nostra sofferenza esistenziale, ci fornisce strumenti di osservazione per capire il nostro stato mentale, e ci dona anche metodi pratici per superare le difficoltà del percorso verso la comprensione della nostra vera forma.

Con un rispetto per ogni provenienza, dalla più profondamente religiosa a quella più pragmatica, Patanjali approccia il problema dell’esistenza rivolgendosi a chi abbia voglia di guardarsi dentro, riconoscendo generosamente che non tutti partiamo allo stesso livello o lavoriamo con la stessa disciplina o lo stesso entusiasmo.

Quasi tutti possono raggiungere uno stato di comprensione profonda, purchè lo sforzo sia sincero e ci sia fiducia nel percorso intrapreso.

Patanjali ci fornisce diversi strumenti per calmare le nostre agitazioni mentali, che partono (non necessariamente in senso cronologico, almeno ai giorni attuali) da osservanze etiche personali e sociali, all’utilizzo disciplinato del corpo, alla regolazone del respiro, per arrivare a stati via via maggiormente rivolti verso l’interno, astraendosi dagli stimoli sensoriali esterni per imparare a concentrarsi con livelli di attenzione focalizzata sempre più profondi.

Credo che sia anche importante osservare che negli YogaSutra non incontriamo mai giudizi positivi o negativi su un atteggiamento piuttosto che un altro, non abbiamo la dicotomia bene-male alla quale siamo abituati sino dallo stato embrionale.

Per Patanjali il nostro scopo ultimo è di ‘riconoscere la nostra vera forma’, solo allora la sofferenza potrà cessare.

Patanjali riconosce che il percorso è difficile e ci aiuta a capire quali sono gli ostacoli principali che ognuno di noi incontra nell’esperienza quotidiana, in modo da poter intervenire.

Questi ostacoli sono i kleśa.

“Avidyāsmitā rāga dvesāhābhiniveśhāh kleśhāh”

La non-consapevolezza della propria reale natura, il senso della propria individualità, l’attaccamento, l’avversione, il desiderio di vivere sono le cause dell’afflizione

Nel Sutra II.3 Patanjali elenca le diverse afflizioni che provocano movimenti mentali e di conseguenza sofferenza esistenziale.

Avidya è alla base di tutte le agitazioni mentali, come le radici di un albero da essa si diramano le altre afflizioni. È l’i-gnorare, il non vedere o non saper vedere la realtà per quella che è. Questo ci porta a valutare affrettatamente e quindi a formare un pre-giudizio infondato.

Raga è desiderio, l’attaccamento a ciò che ci dà piacere. Apparentemente nulla di drammatico ma il piacere crea inevitabilmente aspettativa della ripetizione dell’evento. E questa aspettativa è sofferenza in nuce.

Dvesha è più facile da comprendere. È l’avversione che la sofferenza genera in noi. Un evento o una esperienza sgradevole ci provoca rifiuto. Successivamente la memoria del dolore provoca avversione anche in assenza di una nuova sorgente di dolore o di esperienza negativa.

Abhinivesha, dice Patanjali, affligge anche il più saggio ed esperto degli yogi. È la paura della morte, fisica o metaforica, la paura di scomparire e di essere dimenticati.

Queste sensazioni sono anche legate ad Asmita, il senso del sè: questo mi piace, questo no, la perenne ansia di rapportarci, distinguerci e differenziarci da quanto che ci circonda.

Tutto questo crea sofferenza, fino a che non risaliamo il torrente della materia dalla più tangibile alla più sottile e apriamo gli ‘occhi’ al fatto che le esperienze altro non sono che evoluti della mente, prodotto di una confusione iniziale che ha mescolato osservatore ed osservato, soggetto ed oggetto, purusha e prakrti.

“Avidyāksetram uttaresām prasuptatanuvicchinnodārānām”

La non-consapevolezza della propria reale natura è la causa di tutti gli altri ostacoli, che possono essere dormienti, deboli, sospesi o attivi

Nel Sutra III.4 vediamo come le afflizioni, che come erbacce nascono nel campo della non-consapevolezza, possano essere presenti in diversi stati di manifestazione.

Esse non sono mai assenti, a meno di non aver raggiunto lo stato di ‘seme bruciato’ che Vyasa lega alla pratica forte e sincera di uno yogin realizzato.

Chi di noi lavora in giardino sa bene come non si possa mai pensare di aver concluso il lavoro di mantenimento.

Basta abbandonare la zappa per pochi giorni e subito i semi dormienti prendono vita, talvolta in maniera debole e sono facili da domare, alle volte le erbe indesiderate nascono vigorose e difficili da estirpare. Talvolta ci pare di aver avuto successo nell’eliminare una specie, ma spesso la tranquillità è una illusione: un’altra specie di erbaccia ha preso il sopravvento e tiene a bada temporaneamente quella precedente.

Così talvolta ci illudiamo di aver messo da parte una avversione ma se analizziamo a fondo scopriamo che il nostro ego è in realtà distratto da una passione nuova.

Patanjali era sicuramente un giardiniere.

 

Gli Āsana nella pratica posturale moderna

Possiamo ritrovare tanti di questi tratti nella moderna interpretazione di uno degli strumenti dello Yoga di Patanjali, la pratica posturale degli āsana.

Se guardiamo a come Patanjali definisce l’essenza dell’āsana, essa deve con l’esperienza acquisire le qualità di sthiramsukham.

Attenta, consapevole ed al contempo rilassata ed agevole.

Lo sforzo e l’abbandono coesistono permettendoci di osservare l’infinito che è in noi, creando un respiro sereno, lungo e sottile.

Ma se osserviamo lo ‘yoga’ che ci viene proposto continuamente da giornali, video, pubblicità, notiamo che si tratta di una ginnastica posturale associata in maniera vaga all’idea del rilassamento.

Talvolta assume un aspetto estremamente acrobatico e altre volte il termine yoga viene affiancato ad ogni possibile attività, dalla risata alla degustazione di vino e cioccolato.

Inoltre i riferimenti estetici che ci vengono proposti sono immancabilmente di livello superiore alla media, sia nel maschile che nel femminile, continuando a portare la nostra attenzione verso l’esterno.

Il lavoro verso l’incanalamento delle energie sottili, la preparazione verso l’assorbimento totale in cui ritroviamo o riscopriamo la nostra vera natura sono pressochè ignorati.

Della disciplina necessaria per intraprendere questo percorso non viene fatta menzione.

Il desiderio di essere sinuosi, l’avversione per il quotidiano, l’affermazione della propria identità, la paura del decadimento fisico spesso permeano la pratica contemporanea e sono spesso anzi fattori che ci spingono ad intraprendere questo percorso.

In breve, lo yoga che incontriamo è a mio parere spesso permeato di avidya, specialmente perché molto spesso viene portata avanti l’equazione yoga = āsana dimenticando che questo è solo un aspetto degli otto che Patanjali ci descrive.

È raro infatti incontrare chi si avvicina allo Yoga per una semplice curiosità o interesse filosofico.

In altri casi ci avviciniamo perché spinti dalla sofferenza, che potrebbe essere un banale mal di schiena, problemi alla cervicale o anche un malessere esistenziale, quello che Patanjali chiama dukha, una sensazione di pesantezza fastidiosa che non riusciamo a definire con chiarezza ma che ci rende la vita difficile.

La pratica di āsana – che è un aspetto fondamentale del percorso e costituisce uno degli aspetti fondamentali nel percorso verso il ritrovamento della propria vera natura lenendo il dolore che ci avvolge – può invece essere arte e scienza.

Non solo lo scopo di quel movimento diverso dalla mera ginnastica, è preparatorio alla capacità di essere ‘fermi’, stabili, imperturbati dagli eventi esterni, dal caldo e dal freddo, dal bello e dal brutto, dalla fame e dalla sete.

La pratica di āsana ci aiuta a placare rajas e tamas, ci stanca il corpo affinchè anche la mente si quieti e possa finalmente soffermarsi, ci depura dalle tossine fisiche e mentali che ci appesantiscono.

Se abbinata ad una pratica di prānāyāma raggiunge questo scopo in maniera ancora più efficace. Con gli esercizi respiratori eliminiamo ulteriori tossine e risvegliamo l’attenzione verso il nostro mondo interiore, a cui possiamo accedere solo se sussiste quiete, come il fondo di un lago nascosto dalle increspature delle onde quando soffia il vento.

Anche la modalità è diversa, e nella grande intuizione di Krishnamacharya attraverso la sua personale lettura degli Yoga Sutra, l’effetto si raggiunge tramite l’uso consapevole del respiro.

Il respiro si allena a diventare lungo e sottile, anche nelle posture più intense.

Il respiro stesso diventa un campo di osservazione, indicatore del nostro stato mentale.

Ritroviamo la ricerca della leggerezza e della fluidità negli esercizi di riscaldamento vyayama, che diventano la base della pratica vinyasa krama, che diventa a sua volta viniyoga quando si adatta all’individuo ‘imperfetto’ e lo accoglie come è in quel momento, magari nel mezzo della vita.

L’unione di movimento e respiro ci permette di utilizzare il corpo visibile come osservatorio di un corpo più sottile ed invisibile, fatto di mentale, esperienza, emozioni.

L’osservazione attenta ci rivela il nostro stato attuale, le nostre aspirazioni, il nostro passato.

In tadāsana il movimento si compie agevolmente in 8 secondi, in matsyendrāsana dopo due secondi ci sentiamo costretti e soffocati e non vediamo l’ora di uscire dall’āsana. Che mai vorrà dire?

Il nostro ujjayi è rumoroso, proiettato verso l’esterno a ricordare al mondo che esistiamo, nella nostra pratica iniziale. L’esperienza ci porta a rendere il respiro più silenzioso, più intimo.

 

La mia storia

All’avvicinarsi dei 40 anni, da persona sempre piuttosto attiva fisicamente e attenta alla propria persona mi sono ritrovata a passare parecchio tempo ferma, visto che la progressione lavorativa mi aveva allontanato anche dalla ‘pratica’ in laboratorio.

Sotto attacco di asmitā e abhiniveśāh, ho cominciato a preoccuparmi del decadimento fisico, non solo dal punto di vista estetico ma anche di salute negli anni a venire.

Inoltre sono un tipo pitta-vata e di conseguenza ho moltissime energie da spendere, pena l’inquietudine fisica e mentale.

Ma nostante la necessità di muovermi, da ragazzina ho odiato il tennis, la pallavolo, il calcio e mi hanno invece entusiasmato il nuoto, le immersioni in apnea, la ginnastica isometrica.

So di avere un’indole essenzialmente competitiva, ma so anche che la competizione tira fuori aspetti di me che non mi piacciono affatto e ora ho capito che – non avendo evidentemente ancora imparato a gestirli a pieno – è meglio che non li risvegli.

Sono sempre stata affascinata dalle potenzialità del corpo e sono sempre stata interessata al movimento come espressione energetica, alle sue potenzialità psicofisiche.

Il lavoro di gruppo non mi è mai interessato più di tanto, essendo essenzialmente una esploratrice solitaria.

La sfida è sempre stata con me stessa piuttosto che con gli altri, e che avevo già intuito la grande energia che poteva essere tratta dal respiro.

Il respiro lungo e sottile era l’unica soluzione ai dolori mestruali, pause respiratorie nascevano spontanee in situazioni in cui era richiesta attenzione elevata…

Non sapevo che avrei potuto ritrovare tutto questo nello Yoga, che mi pareva una pratica troppo statica e quindi inconcepibile per uno spirito inquieto come il mio.

Nè del resto avevo mai avuto lo stimolo a capire cosa ci fosse di interessante a stare fermi.

Quindi, all’alba dei 40 anni esplorando le possibilità che reputavo essere a me più consone, ho scoperto il Pilates.

Movimento e respiro, una pratica essenzialmenre solitaria, esplorazione attenta degli effetti delle contrazioni muscolari, osservazione.

Mi piacque molto e pensai che una serie di lezioni potessero essere un regalo perfetto per mia mamma anche lei sempre più statica dopo la morte di mio padre se pur sempre attivissima nelle attività quotidiane.

Quel regalo ha letteralmente cambiato la mia vita, perché per una serie di coincidenze mi mise in contatto con il mondo dello Yoga, precisamente con il cosiddetto Power Yoga..

Per quel poco che sapevo di Yoga i termini mi parevano in contraddizione, ma l’idea di qualcosa di energetico ed allo stesso tempo calmante mi intrigò e provai una lezione.

Rimasi folgorata.

L’aspetto più entusiasmante e diverso da tutto quello che avevo provato fino a quel momento era la calma dopo la pratica, pur molto molto intensa e faticosa. Riposando in savāsana la quiete era particolare.

Una sensazione mai provata eccetto nel sonno non-sonno al mare ascoltando le onde crogiolandosi al sole.

E così ho cominciato a esplorare lo Yoga.

Da sola, nel mio tipico approccio alla vita, scoprendo via via che il Power Yoga in realtà non era che una semplificazione dell’Ashtanga Vinyasa proposto da Sri Patthabi Jois.

Per due anni abbondanti ho praticato seguendo i DVD di Richard Freeman, ottimamente spiegati, almeno un paio di volte la settimana e poi nel fine settimana.

Era una pratica molto interessante ma anche molto faticosa, una intensa ora e mezza che lasciava talvolta una grande quiete e talvolta aumentava l’agitazione.

Contro le impressioni che posso dare a prima vista, sono una persona piuttosto prudente. Non ho mai cercato di forzare posizioni che non mi paressero accessibili e sono riuscita a non farmi mai male.

Però era chiaro che una pratica del genere non sarebbe stata sostenibile nel lungo termine, per molti motivi che passavano dal punto di vista fisico all’osservazione che la stessa sequenza, praticata giorno dopo giorno, non era adatta alle variazioni di stato psicofisico o stagionali.

Non mi convincevano affatto le affermazioni che ‘la difficoltà a praticare ci metteva di fronte ai nostri ostacoli interiori’, che l’unica controindicazione fosse la pigrizia, che questa pratica sarebbe andata bene anche a 60 anni.

Notare che io non sono nè pigra nè acciaccata nè timorosa di affrontare esperienze difficili.

Poi la comunità di praticanti del metodo appariva ossessiva e ben poco serena, qualità che mi parevano indicare un fallimento del metodo per come sino a quel punto avevo capito, perché nel frattempo avevo anche cominciato e leggere, e come per molti praticanti autodidatti, Light on Yoga e Light on the Yoga Sutras di BKS Iyengar furono i miei primi libri di testo.

Ma c’erano alcuni punti che non mi convincevano. Era interessante vedere il numero infinito di posizioni che il corpo può assumere ma allo stesso tempo mi domandavo se ci fosse una reale necessità di intraprendere questo percorso.

Inoltre gli Yoga Sutra nell’interpretazione di Iyengar mi risultarono parecchio oscuri come prima lettura.

Era giunto il momento di cercare qualcuno che mi guidasse un po’ di più e cercai una scuola, arrivando dal mio primo maestro, Clemente, forse il più vecchio insegnante a Siena.

L’ incontro fu molto interessante perché completamente diverso da quello che mi aspettavo.

Clemente (un allievo di BNS Iyengar, l’altro Iyengar allievo di Krishnamacharya) insegnava sequenze brevi, posizioni facili, non correggeva praticamente mai l’allineamento degli allievi.

Non parlava praticamente mai eppure la sala della pratica era sempre piena.

Venendo dall’Astanga Vinyasa (ormai avevo anche fatto qualche workshop con insengnanti importanti) dove il movimento del corpo e spesso anche gli aggiustamenti fatti dall’insegnante erano visti come fondamentali tutto questo mi pareva stranissimo eppure sentivo che dietro c’era qualcosa di profondo e importante.

A convincermi definitivamente fu il notare che il prurito di zanzare e moschini che mi assaliva inarrestabile durante le riunioni di lavoro spariva completamente durante la lezione di Yoga.

Lo Yoga era diventato l’unico impegno per il quale mi rifiutavo di rimanere a lavorare oltre l’orario normale.

C’era qualcosa che doveva essere esplorato meglio e di nuovo mi affidai al destino.

Trovai un corso intensivo in vinyasa e mi iscrissi, 5 intere settimane passate in immersione nel Salento, un’insegnante americana semisconosciuta, Monica.

Questa era forse una delle decisioni più difficili degli ultimi anni, dovetti chiedere aspettativa e l’impegno economico era notevole, ma sapevo che la mia vita stava cambiando e dovevo seguire la mia voce interna.

Era ormai abbastanza chiaro per me che il vinyasa era il metodo che cercavo di approfondire, Monica era abbastanza indipendente da maestri specifici anche se faceva sempre riferimento ad AG Mohan e uno dei libri di testo del corso era Il cuore dello Yoga di TKV Desikachar.

Al corso eravamo solo in 5 e questo fu fantastico, anche se – anche in questa occasione – Monica non era così continuamente disponibile come avremmo desiderato.

Stava diventando sempre più chiaro che anche sotto la guida di un maestro il percorso doveva essere personale.

Il testo di TKV Desikachar fu strumentale nel capire finalmente gli Yoga Sutra. Finalmente parole semplici e concetti spiegati in applicazioni quotidiane.

Terminato il corso non ero ancora sicura di voler insegnare ma cominciai comunque sotto consiglio di mio marito. L’esperienza fu positiva e continuai, anche se mantenni il mio lavoro quotidiano.

Dovevo maturare la decisione in maniera più profonda.

Non so perché non tornai a lezione da Clemente, forse mi sentivo in colpa per averlo ‘tradito’. Penso che questa sensazione sia piuttosto frequente e che le incomprensioni tra maestri e discepoli siano all’ordine del giorno nelle discipline spirituali.

Pensai di aver bisogno, nonostante l’intuizione che lo Yoga non consistesse in quello, di lavorare sull’allineamento fisico e mi iscrissi ad una scuola che seguiva il metodo Iyengar.

Continuai parecchi mesi ma era evidente che questo approccio per me non funzionava.

Il respiro non copriva il ruolo fondamentale che tutti gli approcci precedenti gli avevano dato. Il Prānāyāma non esisteva se non in rarissime sessioni dedicate.

L’ossessione per l’allineamento mi causava spesso fastidi alla schiena o al collo, la lezione non mi calmava, anzi riportava in superficie le mie tendenze a mettere troppa forza, a insistere anche quando non era utile.

 

La scoperta di un metodo progressivo

Sapevo che il corso intensivo che avevo seguito non poteva essere sufficiente e che era necessario approfondire ulteriormente, che poter fare riferimento ad un maestro era importante per capire meglio i concetti che continuavano a rimanere oscuri.

Tornai a pensare che, tra tutto quello che avevo letto, il libro il Cuore dello Yoga, e il Bhagavad Gita erano stati i testi che maggiormente avevano lasciato traccia nella mia formazione, che il metodo ‘sottile’ di Clemente era in fondo estremamente efficace.

E così di nuovo il destino mi portò al nuovo passo, e cercai una scuola che seguisse gli insegnamenti di TKV Desikachar. La trovai a Roma, da Antonio, che mi accettò al corso di formazione anche se già iniziato. Dopo un paio di incontri ‘di recupero’ mi unii al gruppo degli altri allievi.

Fin dalla prima lezione era chiaro che questo viniyoga era speciale, più ancora di quanto il libro di Desikachar lasciasse intuire.

Il corpo fisico era importante ma non c’era mai la sensazione che ci si fermasse lì, il respiro rendeva l’esperienza più profonda.

Avevo già l’esperienza del potere del respiro dalla pratica astanga vinyasa, dove l’effetto della fisicità intensa poteva essere temperato dalla decisione di utilizzare un respiro molto lungo.

In questo metodo viniyoga si cantava anche e si utilizzava il suono nelle pratiche fisiche e questo fu per me uno shock iniziale, perché la mia scorza cominciava a cedere con le vibrazioni sonore.

Riprovavo le stesse sensazioni dei migliori giorni di pratica astanga vinyasa ma i risultati venivano ottenuti in maniera sottile, quasi inaspettata.

Non mi capitava più che una sessione mi lasciasse più agitata di prima.

Il Pranayama sempre presente alla fine delle lezioni completava il lavoro verso la stabilità psicofisica e i ‘benefici’ erano durevoli.

Era chiaro che anche Antonio apparteneva alla serie degli insegnanti tradizionali che parlano poco, sono vicini ed al contempo lontani e questo portò ad alcune difficoltà iniziali, ma era altrettanto chiaro che dovevo adeguarmi a questo se volevo approfondire la mia esperienza e comprensione di questa materia.

Ho continuato a seguire workshop di altri insegnanti, tornando almeno un paio di volte all’anno a praticare le sequenze di Patthabi Jois e ho anche frequentato corsi con Srivatsa Ramaswami, sul metodo vinyasa krama a lui trasmesso da Krishnamacharya.

La fisicità per me rimane un punto molto importante della pratica, ma il cerchio si stringe sempre di più verso l’approccio progressivo e la necessità di una sosta, utilizzare il movimento come mezzo per arrivare a fermarsi.

Sono credo arrivata, partendo dal corpo, passando per il corpo e tornando al corpo, ad una comprensione diversa della sua funzione.

Il corpo è un mezzo per accedere a livelli più profondi, posso certamente giocare a ‘perfezionare’ la posizione ma non è quello il punto, almeno non quando si hanno 50 anni.

Non importa così tanto ‘riuscire’, anche perché questo ‘riuscire’ ha ormai assunto un significato molto diverso.

La forza non serve a nulla, anzi. Diventa una manifestazione della mia inquietudine, la frustrazione un ostacolo alla crescita interiore, non si può nascondere nulla a se stessi.

L’uso del respiro, lungo e talvolta anche sospeso, mi mette di fronte ai miei limiti in maniera talvolta crudele ma mai potenzialmente dannosa.

Il concetto di tensione e abbandono di abhyasavairagya, di contrazione e rilassamento di sthiramsukham degli Yoga Sutra diventano esperienziali, e li ritrovo anche nel movimento che conduce verso il mantenimento di un āsana statico.

Nel movimento muscolare abbiamo attività e tensione.

Arrivando all’āsana al termine dell’inspiro o dell’espiro, come il respiro si ferma, anche la tensione muscolare può cessare.

Con l’esperienza, e in una ‘buona giornata’ divento maggiormente in grado di fare coalescere gli elementi di tensione ed abbandono, fino ad arrivare alla coesistenza delle qualità opposte sia durante il movimento che nell’āsana.

Studiando gli Yoga Sutra sotto la guida di un maestro vedo che molte dellle mie pratiche precedenti erano state avvolte da avidya.

La necessità fisica di muoversi nasconde una inquietudine esistenziale.

Anche se il non-movimento non era ancora per me possibile almeno potevo riconoscere questa necessità per quella che era, un sintomo di uno sbilanciamento verso uno degli aspetti meno stabili della mia costituzione.

E pensando ancora all’esperienza dell’astanga vinyasa capivo che era una pratica molto potente ma – almeno per me – non sempre adatta.

Pareva inoltre comportare un forte rischio di sbilanciarmi ancora di più verso un ego già piuttosto sviluppato, incitando una competizione con me stessa che andava oltre il necessario e poteva innescare meccanismi che a tutto portavano fuorchè calma, creando una dipendenza che molto aveva a che fare con raga e anche con abhinivesha.

Conteneva in sè il germe dell’attaccamento alla giovinezza e la paura di invecchiare, di non essere più in grado di ottenere i risultati che un ragazzo poteva ottenere.

Tornare a praticare astanga vinyasa oggi ha un senso diverso, è un gioco che finisce quando la sequenza è completata, dove posso scegliere di giocare se la giornata è favorevole.

Il metodo Iyengar ha su di me l’effetto contemporaneo di suscitare avversione e testardaggine a continuare anche ciò che per me non è adatto per rimanere orgogliosamente fedele all’immagine che una parte di me vorrebbe trasmettere.

Sono molto grata a tutti gli insegnanti che ho incontrato sul mio percorso, sia virtuali che reali, perché da ognuno ho tratto un insegnamento che mi ha reso più consapevole dei miei limiti, che mi ha insegnato ad accettarli e anche superarli, magari aggirandoli e approcciandoli da una prospettiva diversa o addirittura opposta.

Ho potuto scegliere di non agire per poi tornare ad agire con uno spirito diverso e maggiormente inquisitivo sulle mie avversioni, esplorandole per capirne l’origine e la natura.

Ho potuto soddisfare il mio spirito auto-competitivo utilizzando strumenti che non erano pericolosi, come il respiro e le pause respiratorie.

Ho imparato ad accettare il passare degli anni ma anche valutare cosa ancora posso fare e cosa invece non mi appartiene più.

Anche il mio modo di insegnare è cambiato, e questo forse è il punto più importante.

Le lezioni continuano ad essere impegnative ma non sempre, credo di essere più diventata più rispettosa delle esigenze degli studenti, anche se rimangono inespresse a parole. Sto imparando ad osservare e interpretare, anche sulla base delle esperienze sulla mia pelle.

Mi ritrovo a difendere l’apparente non-azione o ‘facilità’ del viniyoga senza il fervore semireligioso che mi avrebbe caratterizzato un tempo, ma da un punto più stabile e profondo, invitando alla pratica sapendo che l’esperienza personale è il miglior maestro e che, se veramente interessato, ogni studente arriva a capire cosa è meglio e diventa lentamente un buon maestro di se stesso.

Forse anche tutto questo è avidyā, sotto un’altra forma, ma mi pare piano piano di avvicinarmi al nocciolo.

 

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