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Il prānāyāma alla luce della coscienza

Recentemente ho letto un articolo molto bello di Godfrey Devereux su una rivista online, dove si parlava della differenza tra il Prānāyāma in Patañjali e quello descritto nei testi dell’Hatha Yoga. L’argomento mi interessa molto ed avevo già cercato di toccare questa differenza nel seminario che ho tenuto da Óscar a León.

Ma Devereux spiega molto molto meglio di me, quello che ho cercato di trasmettere a parole e nelle pratiche proposte a lezione.

Siccome non tutti sanno l’inglese e l’articolo mi pare importante, ho pensato di tradurlo.

Trovate il link all’articolo originale in fondo alla traduzione.

Il pranayama alla luce della coscienza

Il Pranayama, a quanto pare, una volta aveva un posto più centrale nella pratica dello yoga di quanto non faccia in questi giorni. Mentre gli Yoga Sutra di Patanjali sono spesso citati come il testo di yoga di base, ciò che viene praticato con il nome di yoga al giorno d’oggi, sul tappetino o sul cuscino, ha una somiglianza e relazione più diretta ai più recenti testi medievali come l’Hathayoga Pradipika. In questo e in testi simili molto più contenuto, in quantità e in dettaglio, è dedicato alla regolazione del respiro rispetto alle pratiche posturali. Tuttavia l’Hathayoga Pradipika e altri testi medievali dicono chiaramente che Hatha Yoga è una preparazione per Raja Yoga.

Allo stesso tempo, sembra esserci un collegamento diretto tra la metodologia Hatha Yoga del regolamento del respiro conosciuto come Pranayama e la presentazione del Pranayama negli Yoga Sutra di Patanjali. In particolare nello Yoga Sutra di Patanjali II.50, dove usa le parole sanscrite per ‘luogo’, ‘tempo’ e ‘numero’. Non è così difficile collegare queste parole agli aspetti fondamentali della popolare metodologia del Pranayama. Il luogo (desa in sanscrito) può essere collegato alle quattro fasi del respiro: inalazione, sospensione interna, espirazione e sospensione esterna (ndt: in realtà ritengo che desha indichi il luogo dove l’attenzione viene portata durante gli esercizi respiratori). Il tempo (kala in sanscrito) può essere collegato alla lunghezza o durata delle fasi del respiro. Il numero (samkhya in sanscrito) può essere collegato al numero di giri, o cicli, praticati.

A prima vista questo sembra confermare che le pratiche di Hatha Yoga siano direttamente correlate al vecchio yoga ‘Classico’ presentato da Patanjali. Ma non è detto. Il primo problema che ci troviamo di fronte è quello della traduzione e interpretazione: in particolare degli Yoga Sutra. Per tradurre un testo che si occupa delle radici e delle sottigliezze dell’esperienza umana, entro il quale sono analizzate le dinamiche di cognizione, percezione e coscienza riferendosi direttamente all’esperienza umana, abbiamo bisogno di più che semplici capacità linguistiche. Abbiamo anche bisogno di avere una chiara comprensione del territorio analizzato. Gli studiosi moderni non forniscono questa comprensione. Questa può essere derivata solo da una profonda intimità con l’intelligenza umana e con la sua capacità di fornire una chiara visione delle dinamiche funzionali della cognizione umana. Questa intimità è forse fornita solo da una profonda meditazione.

Senza un’adeguata profondità di esperienza nessuna fluidità linguistica permetterà di interpretare in modo accurato le dichiarazioni terse e concise dei Yoga Sutra. Stando così le cose non dovremmo forse essere sorpresi di scoprire che la maggior parte, se non tutte, le interpretazioni e anche le traduzione del testo di Patanjali esprimono le assunzioni e i pregiudizi del commentatore, piuttosto che la comprensione di Patanjali. In effetti, un commentatore che non chiarisca questa possibilità non è probabilmente degno di fiducia per capire le sottigliezze dell’intelligenza umana. E in tal caso, difficilmente può essere degno di fiducia per interpretare gli Yoga Sutra.

Le otto parti dello yoga, presentate da Patanjali nel secondo e terzo capitolo degli Yoga Sutra, sono forse la parte più conosciuta del suo testo. Questo non significa che essi siano chiaramente compresi. Se andiamo al sanscrito utilizzato per presentare la terza e la quarta fase, Asana e Pranayama, incontriamo poi un secondo problema di intenzione o di tecnica. Anche se Asana è generalmente considerata essere una tecnica che coinvolge il corpo, non c’è nulla sulla tecnica nelle parole di Patanjali. Sono chiaramente descrittive piuttosto che prescrittive. Non vi è alcun riferimento a eventuali forme o posture specifiche. Solo riferimenti alle qualità esperienziali.

Dato che Patanjali afferma nell’apertura alla sua presentazione del Pranayama che questo si verifica all’interno di Asana (Tasmin sati), abbiamo bisogno di capire che cosa è Asana se vogliamo capire che cosa è il Pranayama per Patanjali. In effetti Patanjali descrive Asana in quattro sutra di due parole. Il primo contrappone sthiram (fermezza o stabilità) a sukham (facilità, gioia). Il secondo giustappone prayatna (sforzo, tensione) a saithilya (rilassamento, rilascio). Il terzo giustappone ananta (senza fine, infinito) con samapatti (intimità, fusione). Il quarto giustappone dvandvha (opposti, dualità) con anabhighatah (immunità, trascendenza).

Questo è chiaramente descrittivo piuttosto che prescrittivo, descrive un’esperienza piuttosto che una tecnica. Un’esperienza entro la quale il corpo viene percepito in maniera radicalmente differente dalla norma. La maggior parte dei praticanti di yoga posturale hanno avuto questo tipo di spostamento percettivo in cui il corpo non è più percepito come una struttura tridimensionale finita e localizzata precisamente. In realtà questa potrebbe essere la caratteristica di essere “nella zona” o “nel flusso”, mentre lavoriamo sul tappetino: il carattere percepito del corpo si dissolve in una presenza amorfa di benessere entro il quale le distinzioni dualistiche, funzionali e strutturali, tra destra e sinistra, su e giù, davanti e dietro, avanti e indietro, dentro e fuori non hanno alcuna rilevanza, e neanche presenza.

Se questo è il caso, allora il Pranayama secondo Patanjali, sarebbe un approfondimento di questa esperienza somatica non-duale e non lineare attraverso la consapevolezza del respiro. Quasi ogni meditatore esperto potrebbe probabilmente confermare questo tipo di esperienza, all’interno del quale l’insediamento del corpo nella quiete lascia le sue sensazioni più consistenti ed evidenti in quelle generate dal respiro. L’attenzione è poi naturalmente portata da queste sensazioni verso una profonda intimit (samapatti) con la presenza del respiro. Invece di essere ‘controllo’ del respiro, che non sarebbe possibile all’interno di un’esperienza somatica senza punti di riferimento funzionali e strutturali, il Pranayama sarebbe una naturale estensione della esperienza adimensionale di Asana. Le caratteristiche (dualistiche) funzionali e strutturali del respiro diventerebbero insignificanti, irrilevanti e impercettibili, mentre la consapevolezza sarebbe assorbita nel flusso più profondo della coscienza stessa.

Che è esattamente ciò che Patanjali afferma nell’ultimo sutra della sua presentazione del Pranayama. “Dharanasu ca yogyata manasah” crea un legame esplicito tra Pranayama e la prima fase della ‘mente meditativa’, Dharana, che è la sesta parte presentata da Patanjali. Anche se questo sembra saltare la quinta parte, il Pratyahara, Patanjali tuttavia la presenta immediatamente.

Nelle sue presentazioni di Asana, Pranayama, Pratyahara, Dharana, Dhyana e Samadhi è molto difficile trovare prescrizione o tecnica. Non è così difficile vedere che Patanjali descrive un graduale ripiegamento della coscienza dal corpo e dalla respirazione attraverso la mente e nella coscienza. Gli Yoga Sutra sono una mappa di “ciò che è” e “ciò che accade”, piuttosto che un manuale di “come fare”.

Una possibile eccezione a questa coerenza descrittiva potrebbe trovarsi nella sua presentazione del Pranayama. Non solo nel suo uso delle parole desa, kala e samkhya, ma anche, e forse più significativamente, nel suo uso della parola viccedah. Quattro commentatori contemporanei (Feuerstein, Stiles, Iyengar e Huston) offrono le seguenti opzioni in inglese per questa parola chiave: tagliare, cessazione, arresto, interruzione.

Queste parole sembrano implicare chiaramente intenzione, regolazione e controllo. Tuttavia potrebbe non essere così. Chi, infatti, ha vissuto un profondo ripiegamento di consapevolezza nella presenza chiara della coscienza sa che un evento del genere non può mai essere prodotto da sforzo né dal controllo. Anche il minimo accenno di sforzo o intenzione, mantiene la mente nei suoi limiti lineari e dualistici. Piuttosto, il flusso ripiegantesi della coscienza presentato in modo così chiaro ed elegante da Patanjali, accade solo e proprio perché tutti gli sforzi, tutto l’intento è stato abbandonato nella libero fluire della intelligenza della coscienza. Questo è, naturalmente, quello che ‘resa’ significa. Non sottomettersi a qualche potere superiore, ma lasciar andare la resistenza alla presenza dell’intelligenza naturale, dove quella resistenza è più particolarmente il nostro tentativo di far succedere qualcosa.

Niente è forse più evidente per la mente contemporanea della rilevanza, persino dell’importanza di sforzo e intenzione. Quasi tutto quello a cui diamo valore nella nostra vita può essere collegato a loro: le realizzazioni, le competenze, la conoscenza, lo stato sociale, la ricchezza. Tuttavia, se applichiamo questa ipotesi all’auto-inchiesta (lo yoga) troviamo che non solo non è valida, ma che inibisce le nostre possibilità più profonde. Per capire come funziona abbiamo bisogno di essere in grado di distinguere chiaramente tra auto-inchiesta e auto-sviluppo. E quindi tra Pranayama come auto-sviluppo, praticato per migliorare le nostre capacità o sviluppare il nostro potere e Pranayama come auto-inchiesta in cui è semplicemente un mezzo per esplorare le sottigliezze della nostra natura. Mentre l’auto-sviluppo non può mai fornire i frutti della auto-inchiesta, l’auto-inchiesta genera naturalmente molti dei benefici per cui si persegue l’auto-miglioramento: quanto meno chiarezza, tranquillità e comprensione.

Mentre l’auto-sviluppo parte sempre dall’insoddisfazione, per quanto sottile, nel perseguimento di un obiettivo pre-concepito, per quanto concepito o definito in maniera vaga, l’auto-inchiesta è, e deve essere, completamente senza fine (senza obiettivo). Essa deve essere esente da qualsiasi obiettivo specifico e completamente aperta a tutto ciò che può effettivamente esistere. Se applichiamo questa distinzione al Pranayama troviamo che l’approccio basato sul moderno Hathayoga è in contrasto con l’approccio classico di Patanjali, sia nel suo processo che nelle sue possibilità: è chiaramente presentato, e quasi sempre intrapreso, nel perseguimento di un obiettivo assunto per la produzione di soddisfazione e appagamento di qualche tipo immaginabile ed idealizzato.

Se torniamo al testo di Patanjali alla luce di questa distinzione tra auto-miglioramento e di auto-inchiesta, possiamo trovare implicazioni radicalmente diverse per quelle quattro parole: cessazione, luogo, ora e numero. Naturalmente possiamo applicare intenzione al respiro e portarla a termine: per un po’. Allo stesso modo si può facilmente regolare la velocità, la durata e il ritmo del nostro respiro. Tutto ciò trova collocazione nella pratica contemporanea del Pranayama. Tuttavia nel contesto descrittivo degli Yoga Sutra nel suo complesso, e degli otto stadi in particolare, nasce un’altra possibilità. Una possibilità basata sull’intelligenza della coscienza, che si esprime attraverso il potere della consapevolezza cosciente.

Allo stesso tempo, questa possibilità estende possibilità radicali e potenti alla nostra esperienza sia del respiro, che della più profonda presenza contestualizzante di essere una coscienza che si esprime. Nel fare questo getta luce incisiva e consequenziale sulla nostra natura. Mentre quasi tutti sanno che è possibile regolare la respirazione attraverso l’applicazione dell’intenzione, quasi tutti sanno anche che semplicemente il prestare attenzione profonda e costante alla nostra respirazione la trasforma. Naturalmente questa trasformazione non riflette o esprime un esito intenzionale e predeterminato. È il risultato spontaneo dell’attenzione. Deriva dal potere sottile della coscienza come consapevolezza cosciente.

Nello Yoga Sutra II.50 la parola che segue desa, kala e damkhya, è paridrstah. Mentre Feuerstein, Stiles, Iyengar e Huston rendono questo termine come “regolata”, “misura”, “regolata” e “osservato”, rispettivamente, non è difficile vedere il pregiudizio in quei versioni diverse, eccetto che in quella di Huston. Eppure, suggerire che Patanjali raccomandi che semplicemente si osservi il respiro è classificarlo come estremamente ingenuo nei confronti del potere e dell’importanza della consapevolezza cosciente. Come ogni meditatore dedicato può dire, l’osservazione dei fenomeni interni può essere tranquillizzante, ma si tratta di una applicazione seriamente limitata della intelligenza della coscienza.

Molto più potente del mantenere una distanza distaccata tra osservatore e osservato è il permettere alla loro distinzione apparente di dissolversi in quello che Patanjali nel Sutra II.25 chiama “Kaivalya”. Questa è l’essenza dell’intimità, o quello che Patanjali chiama, nel Sutra II.47, samapatti. La fruizione dell’intimità interna è una chiusura della separazione tra osservatore e osservato abitualmente esperita. Nel contesto del Pranayama, il respirante e il respiro diventano una cosa sola. Il risultato di questa intimità senza restrizioni è una profonda, chiara visione della natura del soggetto, dell’oggetto e del loro rapporto apparente. L’illusione della separazione è vista attraverso (paridrstah) le sue radici più profonde (Yoga Sutra II.20-25)

Questo suggerisce un altro significato per quelle quattro parole chiave che hanno portato alla popolarità il controllo del respiro sotto il nome di Pranayama. Luogo, ora e numero sono le tre classi fondamentali delle caratteristiche di base che costituiscono ogni fenomeno. Qualsiasi fenomeno, che sia azione, oggetto, evento o situazione è situato in posizione unica nello spazio (desa), nel tempo (kala) e per questo in relazione (samkhya) a tutti gli altri fenomeni. Ciò che Patanjali sta molto probabilmente suggerendo non è di regolare il respiro, ma di diventiamo una ‘cosa sola’con esso, diventando intimi con tutte le sue caratteristiche fenomeniche. Che sia così non è solo suggerito dalla natura non prescrittiva degli Yoga Sutra, ma anche dalla natura dell’intelligenza umana.

L’intelligenza cognitiva, celebre e brillante come certamente è, è solo la punta dell’intelligenza umana. Funzionando come fa, attraverso la sofisticazione neurologica della corteccia cerebrale, è una diretta estensione dell’intelligenza somatica. L’intelligenza somatica è, nel corpo umano e come corpo umano, il frutto di 3,500,000,000 di anni di ricerca e sviluppo evolutivo. Mentre l’intelligenza cognitiva della mente umana è unica e magnifica nella sua creatività e potere, la sua efficacia in realtà si basa sulla sua instabilità, sulla sua capacità di mettere in dubbio e di immaginare. Solo attraverso la costante riapplicazione di immaginazione e dubbio può arrivare in qualsiasi certezza efficace. L’intelligenza somatica del corpo, d’altra parte, pur limitata nella sua portata, è molto più stabile e affidabile di quella della mente. Sta costantemente, e quasi sempre accuratamente, raccogliendo, elaborando e rispondendo a informazioni chimiche, meccaniche e termiche in modo da mantenerci in vita.

Questa intelligenza è già impressionante, ma c’è di più, molto di più, riguardo l’intelligenza che noi siamo. Vi è anche la presenza intelligente della coscienza, che è la profonda base sia dell’esperienza umana che della sua intelligenza. Senza la presenza intelligente della coscienza non ci sarebbe alcuna consapevolezza, nessuna esperienza, e anche nessun corpo e nessuno per conoscere o sperimentare alcunchè. L’intelligenza della coscienza è forse diversa nella sua natura e nel suo funzionamento tanto quanto l’intelligenza somatica e cognitiva lo sono tra loro, senza esserne separata. Non ultimo nell’essere interamente senza pregiudizi e non selettiva. Mentre il corpo e la mente stanno continuamente differenziando e selezionando, la coscienza è completamente aperta a tutto ciò che è presente.

Mentre c’è potere nella capacità di corpo e mente di distinguere e selezionare, c’è una forza più profonda nella coscienza, nella sua capacità di contenere e rivelare indiscriminatamente. Questo potere si esprime non solo nella sua capacità di generare un cambiamento spontaneo, ma anche nella natura di tale cambiamento. Proprio come la respirazione diventa più calma, più liscia, più profonda e più efficiente alla luce della consapevolezza, la consapevolezza cosciente genera di per sé uno slancio verso l’armonia e interezza. Un modo per farlo è quello di consentire che l’inutile, l’irrilevante e il non necessario siano riconosciuti e abbandonati. Questo non solo disarma le abitudini ansiose e nevrotiche della mente, ma rilascia la sua energia, abitualmente ristretta, alla presenza intelligente della coscienza. Questo permette al campo della consapevolezza cosciente di approfondire, chiarire e stabilizzare.

Nel contesto del respiro questo assume implicazioni molto specifiche, direttamente evidenziate da Patanjali nella sua presentazione del Pranayama. Semplicemente permettendo al potere intelligente della coscienza di brillare il più profondamente possibile sulla presenza del respiro, porta ad una trasformazione profonda e anche liberatoria nella mente, nel corpo e nella consapevolezza. L’attenzione profonda al respiro comincia a rivelare l’abituale tendenza inconscia a regolarlo inutilmente. L’intelligenza della mente comincia a riconoscere non solo le sue sottili imposizioni sul respiro, ma anche la loro natura inutile e non di aiuto. Nel momento in cui questi impulsi inconsci abituali sono portati alla luce della consapevolezza, essi si dissolvono, mentre le loro tendenze sottostanti (vasana) si indeboliscono, atrofizzano e infine si sciolgono. Al contempo, la mente diventa disinteressata e incapace di mantenere la sua capacità di distinguere tra le caratteristiche dualistiche del respiro: inspiro / espiro, veloce / lento, fluido / interrotto, dentro / fuori, respirante / respiro, soggetto / oggetto. Inoltre le pause (cessazione, interruzione) tra le due fasi del respiro (kevala kumbhaka) si verificano spontaneamente.

Ogni tentativo, ogni intenzione, di regolare il respiro in qualsiasi modo diventa irrilevante ed infine impossibile. Sia distinzione che volontà relative al fenomeno somatico della respirazione svaniscono. Come ciò accade, l’attenzione viene facilmente trasportata in flussi più profondi della coscienza per mezzo di Pratyahara e nella mente meditativa. Alla fine questa intimità, che ha avuto inizio in asana con la presenza del corpo, e si estende attraverso il Pranayama in Samadhi, genera una profonda intimità con la nostra natura sottile di coscienza. Questo è un processo molto semplice, ma profondo e potente che deve essere sperimentato per essere pienamente compreso. Arriva a compimento con l’integrazione dell’intelligenza cognitiva della mente nell’intelligenza spirituale della coscienza. Questo permette alla mente di lasciar andare il suo bisogno e la sua capacità di imporrsi inutilmente sulla intelligenza del corpo, e sulla vita, pur consentendo all’intelligenza della coscienza di esprimere più liberamente e più pienamente il suo impulso intrinseco verso armonia e interezza.

La regolazione del respiro secondo ritmi predefiniti, ma impossibili da misurare con precisione, potrebbe essere affascinante, elettrizzante ed energizzante, ma dipende dalle capacità superficiali e instabili della mente di affinare e di controllare. L’intelligenza della mente, che è naturalmente instabile e inaffidabile, si sta imponendo sull’intelligenza del corpo, che è naturalmente stabile e affidabile. In tal modo l’intelligenza della coscienza, che è ancora più stabile e affidabile, e la sua capacità di rivelare e armonizzare, rimangono oscurate e ostruite. Questo approccio manipolativo del Pranayama è molto limitato, e profondamente limitante, è un processo che non fa altro che rafforzare e consolidare il senso di sé come del respirante, agente, regolatore, per quanto emozionante e impressionante possa essere a livello superficiale.

Naturalmente, in tutto questo sto affermando e gustificando i miei pregiudizi e le mie assunzioni. Tuttavia potrebbe essere che non tutti i pregiudizi siano uguali, e che alcuni siano infatti molto più vicini alla verità di altri. Per conoscere la differenza quando si tratta di Pranayama potrebbe essere necessario diventare più intimi come possibile non solo con la respirazione, ma anche con le dinamiche con cui è possibile respirare: la relazione funzionale tra cognizione, percezione, volontà e coscienza.

Felice meditazione!!!

Godfrey Devereux, Maggio 2016.

http://www.sutrajournal.com/pranayama-in-the-light-of-consciousness-by-godfrey-devereux

 

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